venerdì 20 novembre 2020

Ospedale Psichiatrico di Sassari








A cura di Sassari Storia


Anche questa è storia della nostra città.
                                                                                                            

Ho trovato questa descrizione su l'ex ospedale psichiatrico di Rizzeddu. Molti di noi lo hanno conosciuto (non da ricoverati  !!!!!), per sentito dire o magari andando a giocare nel suo campo di calcio. 
Una triste realtà che fa parte dei ricordi di una Sassari che non c'è più. L’Ospedale psichiatrico di Rizzeddu a Sassari.

La testimonianza di un medico del ventennio ‘50-’70 di Maria Stefania Podda
Decidiamo di intraprendere un viaggio nell’impenetrabile, e forse per questo ancor più affascinante, storia del manicomio di Rizzeddu, con la testimonianza di uno dei suoi protagonisti, che per oltre vent’anni ha prestato lodevole servizio nella struttura. Erano gli anni cinquanta, precisamente il 1956, quando, all’età di 33 anni, Giuseppe Pacifico, medico psichiatra laureato all’Università di Sassari, approda all’ospedale di Rizzeddu dopo aver brillantemente superato un concorso. E vi rimarrà fino al 1978, anno in cui ottiene il trasferimento all’Ospedale civile.
Una vita dedita ai malati, e alla sperimentazione sul campo, quella del Dott. Pacifico, psichiatra della scuola pre-riforma, che alla carriera universitaria, caratterizzata peraltro da qualche screzio con l’allora Direttore del Dipartimento di Ricerca di Psichiatria, Prof. Rovasio, preferisce la strada della medicina applicata, a diretto contatto con i pazienti.

Una scelta coraggiosa, dunque, soprattutto perché in quegli anni, ci racconta, essere medico di manicomio richiedeva dedizione assoluta e grandi responsabilità, aggravate inoltre dalle precarie condizioni del sistema di cura, fortemente inadeguato rispetto alla portata delle richieste. Sul finire degli anni cinquanta, infatti, il manicomio ospitava ben 1200 pazienti, per i quali vi erano solo 6 medici in tutta la struttura. Il tempo dedicato al singolo paziente era perciò molto ristretto.
I malati, provenienti da tutta la Sardegna, e per lo più di estrazione sociale medio-bassa, arrivavano a Rizzeddu accompagnati dai parenti o dai Carabinieri, nella gran parte dei casi perché affetti da stato depressivo, peraltro comprensibile date le forti ristrettezze economiche e il grave disagio sociale di quegli anni, o perché considerati violenti, o semplicemente perché in forte stato di ubriachezza. Una volta entrati venivano poi suddivisi tra uomini e donne, e distribuiti rispettivamente in 7 e 6 reparti. Molti di loro facevano ingresso nella struttura, e vi rimanevano, nonostante venisse accertata la loro guarigione. I parenti rinunciavano spesso a riprendersi i familiari riabilitati, li abbandonavano alla solitudine generata dalla malattia, perché incapaci di affrontare il post-ricovero, anche a causa della mancanza di assistenza pubblica. In questo modo – ci spiega l’anziano medico – il manicomio svolgeva una duplice funzione: quella di luogo di cura, e al tempo stesso di recupero sociale, e sostegno alle famiglie. Erano perciò molto fortunati coloro che avevano dei parenti, che ogni tanto venivano in visita. Per gli altri invece, non c’erano contatti con l’esterno. Tra i casi umani più disparati, si trovavano storie di perdizione, e di abbandono alla malattia, ma anche forme di improvvisa “redenzione”, e di ritorno alla normalità.
Nel suo racconto Pacifico riporta il tragico caso di un paziente entrato all’età di 16-17 anni, senza mai uscire dalla struttura, e una vicenda dall’epilogo positivo, di un paziente di Oschiri, un certo *********, giunto nel ’70 e dimesso poco dopo, con il quale si è instaurato persino un rapporto di amicizia e di comunicazioni telefoniche a distanza di anni.
Sono tanti gli aneddoti e le rivelazioni sul mondo manicomiale che emergono da questa interessante testimonianza, tra queste la vicenda di un uomo che fece ingresso a causa del suo stato di ubriachezza, e che dichiarò di essere ambasciatore italiano a Oslo. L’episodio ha dell’assurdo, e persino del comico, data la dubbia credibilità del soggetto, che tutti credevano fosse in realtà un abitante di Osilo. Il misterovenne però risolto il giorno dopo, quando arrivò la notizia che confermava la dichiarazione del paziente. Era veramente l’ambasciatore italiano a Oslo.
Di episodi paradossali ne sono accaduti altri, ci racconta Dott. Pacifico, che pur senza entrare nel dettaglio, rimarca come in passato si entrasse in manicomio con una certa facilità. Tanti furono i ricoveri di “salvataggio”, molti dei quali dal dubbio fondamento medico, ma solo per sopperire all’abbandono da parte della società, alla miseria delle famiglie, e in periodi antecedenti, come quello fascista, per scopi politici. Quest’ultima tesi è confermata dal ritrovamento di oggetti posseduti dai malati, tra cui una vecchia tessera del Partito Comunista. In questa moltitudine di casi umani disperati, non sono mancati gli artisti, ospiti frequenti del Rizzeddu, come ci racconta Pacifico, e come testimoniato da documenti, oggetti e opere d’arte ritrovati. Tra questi il pittore P**** S****, entrato a Rizzeddu perché alcolista, al quale regalavano tele, pennelli, e persino qualche soldo per comprarsi il materiale; e un fotografo francese, del quale rimangono le tracce nelle foto recentemente ritrovate, e rese pubbliche nella mostra espositiva dal titolo “Uno sguardo ritrovato”.

L’enorme flusso di pazienti che giungevano nella struttura, generava forti problemi di sovraccarico, gestiti attraverso diversi passaggi. Pacifico ci dà una ricostruzione dettagliata dell’accoglienza dei malati, che in un primo momento arrivavano nel reparto di osservazione, dove venivano visitati dal medico di turno, e vi sostavano 15 gg per effettuare la diagnosi. Passato il reparto di osservazione, e individuata la diagnosi, si andava al proseguimento cura.
I violenti, gli agitati, erano i più pericolosi, e per eseguire su di loro il trattamento, si adottavano metodi estremi, talvolta si legavano nel letto, ma ci rassicura, non si ricorreva alla camicia di forza. In questi casi inoltre si praticava frequentemente l’elettroshock, ci racconta di averne fatti a migliaia. Nel difendere i metodi utilizzati, in particolare l’elettroshock, il Dott. Pacifico esclude che si tratti di un metodo violento, privo di risultati efficaci e duraturi. “Gli ammalati non sono tutti uguali” – commenta – “ho preso tanti schiaffi e pugni”, ma non per questo non sono riuscito a curarli, ricercando di volta in volta le soluzioni del caso. Pacifico considera il malato innanzitutto una persona, rifiutando così qualsiasi tentativo di omologazione delle cure, ritenendo indispensabile adottare il dialogo con i pazienti, studiare da vicino le patologie, e laddove possibile, personalizzare i trattamenti. Le sue dichiarazioni sono in accesa polemica con le metodologie moderne, che fondandosi sulla dissacrazione della medicina tradizionale, si sono tradotte in una condanna assoluta alle strutture manicomiali, e all’intero sistema di cura.

Se è vero che in passato si ricorreva con una certa frequenza all’elettroshock per curare i più differenti disturbi mentali, dalla schizofrenia, alla depressione, è pur vero secondo il medico, che l’introduzione dei medicinali, non ha certamente favorito una adeguata diversificazione dei rimedi terapeutici, generando al contrario un sovraccarico farmacologico, che non dà i risultati attesi, spesso per compiacere le grandi industrie farmaceutiche.
La testimonianza di Dott. Pacifico dunque, ci dà uno spaccato non solo della vita all’interno di una delle strutture più importanti per la cura dei malati con infermità mentali della Sardegna, ma va ben oltre, attraverso una lettura critica del cambiamento avvenuto nella medicina, a seguito della riforma Basaglia, ridando dignità alla struttura manicomiale, e ai metodi praticati, sia per fondate ragioni scientifiche, che per la funzione di assistenza e di sostegno sociale che assicurava. Questa insolita rappresentazione del manicomio, Pacifico la ricostruisce attraverso il racconto delle scene di vita collettiva, e dei rari momenti di festa e di convivialità, racchiusi nelle pellicole super 8, e nelle videocassette, gelosamente custodite nel suo archivio personale. Un medico-regista che amava immortalare quei pochi istanti di apparente spensieratezza, quasi a voler dimostrare all’esterno che il manicomio, non è soltanto luogo di sofferenza e disperazione umana, così come appare nell’immaginario collettivo, ma è anche spazio sociale, fatto di relazioni, di solidarietà, di recupero conviviale.

Quei filmati ci raccontano delle feste in maschera in occasione del Carnevale, delle gite al mare, delle celebrazioni religiose, in particolare quelle in onore di San Giuseppe, delle visite del Vescovo, del Prefetto, e di altre autorità civili. A questi momenti di vita collettiva partecipavano tutti, medici e infermieri, ma tra i pazienti vi prendevano parte solo coloro che non erano considerati pericolosi, o in gravi condizioni di salute. In questo modo si tentava di ricostruire all’interno dell’ambiente sociale del manicomio, momenti di normalità, che davano la percezione di vivere nel mondo esterno. Pacifico mostra con orgoglio questi filmati, che sappiamo, non sono certamente rappresentativi della vita all’interno della struttura, ma danno comunque un’idea della ricerca di evasione dalla condizione di disagio umano e di isolamento dalla società, che il manicomio di per sé generava. Un luogo autarchico, dotato persino di una improbabile autosufficienza economica. 

Nella vasta area che circondava la struttura ospedaliera, sorgevano infatti la colonia agricola, laboratori artigianali, piccole rivendite, che diventavano luogo di incontro fuori dall’ospedale. Una comunità, dunque, non più relegata alla particolare condizione di salute, ma resa autonoma, seppur racchiusa tra le mura del complesso manicomiale, in una rinnovata, o quantomeno insolita socialità. In questo angolo relazionale, si scardinavano i rapporti formali della quotidianità, tra personale medico, infermieri e pazienti, e tutti partecipavano agli esperimenti di scambio commerciale, e ai punti di ristoro, organizzati con strumenti di fortuna. 
Qualcuno dei pazienti, infatti, aveva persino messo su un servizio di caffetteria. Si trattava, come ci racconta Pacifico, di un giovane riabilitato, rimasto nella struttura perché senza una famiglia che lo potesse accogliere, che entrato in possesso di alcune caffettiere, aveva pensato di creare uno spazio-caffè. Dopo un po’ di tempo il ragazzo si toglie inaspettatamente la vita, lasciando sgomento tra gli altri pazienti e l’intero staff medico. Era il tipico caso di guarigione apparente, che come ci racconta Pacifico, era piuttosto frequente, così come erano frequenti le ricadute, soprattutto dello stato depressivo, generato a sua volta dal forte senso di abbandono.
Al termine del racconto emergono tanti elementi di riflessione, e alcuni dubbi di difficile risoluzione. Secondo l’anziano medico, l’aver chiuso i manicomi è stato senz’altro un errore, e averli sostituiti con i reparti di psichiatria degli ospedali, non ha facilitato l’intervento sui malati, e sulle problematiche sociali ad essi collegate. Oggi pertanto si assiste ad una difficoltà oggettiva nella cura dei disturbi mentali, e ancor di più nel reintegro dei malati nella società, e in particolare nelle famiglie, che oggi come allora, non vogliono accollarsi i problemi derivanti dalla presenza di soggetti affetti da infermità mentali. Lo scenario che si presenta è sempre lo stesso, i pazienti sono 

abbandonati alla solitudine della malattia, aggravata però dalla scarsa presenza di strutture pubbliche che li possano accogliere in via permanente, anche se rimane da sciogliere il dilemma sulla “umanità” della struttura manicomiale, che ingabbiava le persone e le costringeva ad un isolamento, che col passare del tempo rendeva gli individui interdetti al mondo esterno. Senza pretese risolutive, perciò, i dubbi incombono, e si scontrano con la realtà attuale, dove i problemi avanzano, e i rimedi appaiono insufficienti e inadeguati, per la gestione di quella che può essere definita una vera emergenza sociale.



Fotografie reperite nel web e tratte da - Antologia di " uno sguardo ritrovato" ( Fondazione Basaglia )